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I nostri articoli

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Giornata Mondiale delle Persone con sindrome di Down

Oggi 21 marzo 2018 è la “Giornata Mondiale delle Persone con sindrome di Down”.

Vi invitiamo a visionare il video “Lea goes to school”: è la storia di una bambina con sindrome di Down alle prese con il primo giorno di scuola. Il suo percorso sembra già segnato: ad attenderla c’è una scuola speciale, con degli amici speciali e poi quando sarà più grande una casa e magari un lavoro, anche loro speciali. La giovanissima protagonista sembra però avere già le idee chiare sul suo futuro: la strada che vuole percorrere, anche se piena di ostacoli, non ha nulla di speciale e comincia esattamente nello stesso punto in cui comincia per tutti gli altri bambini. Il video evidenzia l’importanza dell’istruzione inclusiva fin dalla prima scolarizzazione e lancia un messaggio chiarissimo: “Include us from the start”.

La scuola inclusiva è un mondo tutto da costruire: molti Paesi negano o limitano il diritto degli studenti con disabilità a essere educati in scuole o classi regolari.

L’educazione inclusiva però è molto di più di una semplice aspirazione, è un diritto umano fondamentale di ogni bambino.

Lo sancisce la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea Generale nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2009.

Lo raccomanda l’UNESCO. In Italia lo sancisce la Costituzione.

Ecco, che dire dell’Italia? In Italia le scuole speciali sono state abolite da oltre quarant’anni e così, guardando il video, sarebbe semplice per noi compiacerci di questo risultato già raggiunto da tempo e ritenerci soddisfatti…ma un atteggiamento del genere sarebbe superficiale e limitativo. Proprio Lea, la bimba protagonista del video, ci pone una domanda importante: “Chi ha detto che “semplice” sia la cosa migliore?”. Sentirci appagati sarebbe appunto la cosa più semplice, ma non certo la migliore.

Il video può invece essere, per chi lavora nella scuola italiana, un incoraggiamento ad “osare” strade nuove, immaginando che il “cartello stradale” che Lea incontra indichi il sentiero, talvolta in salita, verso una scuola davvero “inclusiva”, una scuola senza meccanismi di pusch e pull out dalla classe, di micro-esclusione, senza “forzate” riduzioni dell’orario, senza fenomeni di delega all’insegnante di sostegno

L’invito è di lasciarci contagiare dalla determinazione di Lea e di continuare a impegnarci tutti, ogni giorno, affinché la “scuola dell’inclusione” non solo diventi una realtà effettiva e sempre più diffusa ma diventi “scuola della Costituzione” (D. Ianes, 2017): una scuola in cui bambini e ragazzi, disabili e non, trovino una “speciale normalità” ossia “una normalità che si arricchisce di qualcosa che è essenziale per qualcuno ma utile per tutti” (D. Ianes, idem).

Oltre a essere consapevoli del diritto degli alunni con disabilità all’inclusione scolastica, siamo infatti fermamente convinti che una scuola inclusiva sia una scuola che, valorizzando le potenzialità di ciascuno, è migliore per tutti. Ecco perché riteniamo che lavorare per una scuola inclusiva significa lavorare per una scuola “costituzionale”, tale da garantire davvero a tutti gli alunni, nessuno escluso, la possibilità di dare il meglio di sé.

Buona scuola a tutti!

La coordinatrice dell’Associazione A.I.R. Down

Cristina Bolla

Che ragazzi formiamo senza mai sgridarli?

Articolo uscito su “La Stampa” e su “Controcorrente” del 06/05/2015

Sono un insegnante di una scuola superiore e desidero aprire una riflessione in relazione ai fatti della gita scolastica del liceo di Cuneo. Come si crede di educare dei ragazzi giustificandoli sempre e comunque? Educare è dire chiaramente cosa è bene, cosa è male, cosa è giusto, cosa è sbagliato. Anche quando costa vergogna. Mi chiedo: questi ragazzi, che si sentono punire dalla scuola (è un atto di bullismo), ma giustificare, di fatto, in casa (“è solo uno scherzo!”), cosa trarranno da questa vicenda? Dove si collocheranno? Capiranno qualcosa della gravità di ciò che hanno fatto? O resteranno solo stupiti di essere passati tutt’a un tratto da Facebook alle pagine dei giornali? Che cosa può portare a travisare così tanto la realtà, trasformando ciò che è stata una gravissima e gratuita ostinazione su un compagno di scuola con susseguente vergognosa mancanza di scuse, in uno “scherzo. Magari un po’ pesante, ma uno scherzo”.

Mi chiedo come non si capisca che difendendo sempre le proprie creature nell’immediato (preoccupati in questo caso verosimilmente per la pagella e una possibile bocciatura), si possano danneggiare pesantemente nel lungo termine. Il coraggio di dire ai propri figli che hanno sbagliato, sta diventando sempre più merce rara, tanto più se il giudizio arriva da agenti esterni, come la scuola. Credo che vada davvero recuperata quest’onestà intellettuale di ammettere che un atto è davvero grave, a detta di tutti, e non solo “degli altri”, e rassegnarsi al fatto che questa volta c’è di mezzo anche mio figlio. Ahimè. E’ fondamentale, infatti, mandare messaggi univoci ai ragazzi, per creare dei binari educativi saldi, che permettano loro di acquisire una vera identità: la contrapposizione tra scuola e genitori (sempre più presente) può condurre ad una frattura potentissima in quel compito educativo che necessita invece della sinergia preziosa e profonda tra famiglia e scuola.

Giorgio Giambuzzi

Il mio servizio civile

SAM_2430Proprio quando inizi a sentirti parte di un percorso, di un progetto, di una sfida, ti rendi conto che un anno passa in fretta e che sei arrivato al traguardo. Ma se hai vissuto quest’anno con entusiasmo, voglia di fare, di metterti in gioco, se hai vissuto appieno ogni occasione proposta, allora pensi che anche se questa esperienza è finita, quello che ti lascia non finisce il 2 marzo 2015 ma farà parte di te, sempre. È così che oggi mi sento, è così che ho cercato di vivere quest’anno, con la voglia di impegnarmi in un progetto che ho scelto tra tanti e che mi aveva colpito per la diversità del messaggio: pensare alle persone con la sindrome di Down come persone che, se adeguatamente seguite, possono diventare autonome e indipendenti, possono inserirsi in contesti sociali e lavorativi “normali”, evitando qualsiasi forma di pregiudizio e assistenzialismo.

Ricordo che durante il colloquio di selezione alla domanda «Perché hai scelto questo progetto?» risposi che in un progetto del genere mi sarei sentita a mio agio. All’inizio non è stato proprio così; cercavo “ricette segrete” che mi aiutassero a capire come comportarmi… C’è voluto qualche mese per capire che queste ricette non esistevano, che nessuno poteva darmele, che dovevo essere me stessa… Quando ho capito che avevo a che fare con ragazzi con qualche difficoltà in più, non con “alieni” e che non dovevo cercare l’impossibile da nessuna parte, le cose sono andate molto meglio. Se devo dirla tutta un segreto a qualcuno l’ho rubato. L’ho rubato a tutte quelle persone che conoscono e lavorano con i ragazzi da anni. È da loro che ho imparato a credere in ciascun ragazzo. Me lo hanno trasmesso ogni giorno con l’esempio, la dedizione, la passione, la fatica, l’entusiasmo… Come ho già detto a qualcuno qualche giorno fa, quel “Credici anche tu! Posso farcela anche io” lo vedo negli occhi dei ragazzi ogni giorno e lo porterò con me fuori da questa esperienza. Se prima per me questa frase poteva essere una frase come tante altre, dopo questa esperienza fa parte del mio modo di guardare la disabilità (nel rispetto delle potenzialità di ognuno).

Non so dire quello che io posso aver dato all’Associazione in quest’anno, so solo che ho cercato di dare quello che potevo (ma si può sempre dare di più), ho cercato di non essere un problema ma un aiuto in più, ho capito che i bisogni e le esigenze dei ragazzi dovevano essere al centro e io un aiuto per piccole nuove conquiste. Ho preso più che potevo anche dalla formazione interna ed esterna. Mi è stata data la possibilità di partecipare a incontri formativi sul territorio per l’attività dello sportello: sono stati per me utili per conoscere meglio il territorio e per un lavoro futuro.

Prima che la malinconia mi assalga concludo dicendo che se tornassi indietro sceglierei ancora di dedicare parte del mio tempo agli altri in un’esperienza come questa del servizio civile che t’impegna tante ore, perché (un po’ egoisticamente) ha fatto bene soprattutto a me. Ma soprattutto sceglierei ancora (e ancora con più convinzione) l’associazione A.I.R. Down.”

Graziella Girasoli

No ai ghetti scolastici

(Articolo uscito su La Stampa del 24 marzo 2014)

Siamo un gruppo di genitori e volontari di un’associazione che da anni lotta perché l’inclusione degli alunni con sindrome di Down e disabilità intellettiva sia effettiva nella scuola e nella società. Abbiamo letto l’articolo «La falsa integrazione dei disabili» di Giovanni Orsina, pubblicato su «La Stampa» il 7 marzo, e sentiamo il bisogno di esprimere alcune considerazioni. L’integrazione degli alunni disabili è una vittoria di civiltà che l’Italia ha ottenuto e che non può essere messa in dubbio. Operando nelle scuole sappiamo quanto l’inclusione degli alunni disabili sia talvolta un traguardo lontano. Non solo per le difficoltà burocratiche citate nell’articolo ma anche per una mentalità vittima di pregiudizi. Fatichiamo a far considerare i nostri ragazzi alunni con diritto all’istruzione pari agli altri. Eppure ribadiamo con forza che anche la peggiore delle esperienze di integrazione scolastica è preferibile al confino in scuole specializzate, veri ghetti sul cui minor costo ci sarebbe da discutere. Nella rappresentazione che Orsina fa della scuola mancano due personaggi fondamentali: gli insegnanti di classe e i compagni. I primi sono coloro che effettivamente rendono possibile o meno l’inclusione; i secondi coloro che rendono qualsiasi esperienza di inserimento, anche la peggiore, un’opportunità irrinunciabile per qualsiasi bambino. C’è tanto da fare per «adeguare la civiltà praticata a quella pensata», ha ragione Orsina, ma non dobbiamo arrenderci. L’errore commesso in passato è stato pensare che bastasse emanare una legge per cambiare una mentalità. La legge impone alla scuola di inserire il disabile in classe ma non può imporre ai docenti di «percepirlo» alunno al pari degli altri. Non si può imputare l’insuccesso di un’esperienza di inclusione scolastica solo alla mancanza di risorse. Né si deve pensare alla scelta di integrazione scolastica come a una costo di cui la società si fa carico per assistenzialismo. Le risorse spese per l’inclusione scolastica sono risorse investite nel futuro della società.

Cristina Bolla

Coordinatrice Associazione A.I.R. Down